Città
Panico - Paul Virilio - Raffaello Cortina Editore
di FRANCESCO SCALONE
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In “Città
Panico”, edito in Italia da Raffaello Cortina
nel 2004, Paul Virilio, traccia una sorta di reportage
della catastrofe: dalla distruzione delle Torri gemelle
ai bombardamenti iracheni, dai black out nelle metropoli
occidentali alle devastazioni portate dagli uragani.
In realtà, dal flusso potente della sua scrittura,
analitica e immaginifica al tempo stesso, affiorano
i presagi di uno stato di allerta permanente oggi
generalizzato a tutto il pianeta.
Il ragionamento di Virilio è facile da riassumere:
nell’epoca in cui la velocità del progresso
tecnologico e scientifico è sfuggita inesorabilmente
a qualsiasi controllo politico, ecco che allora l’incidente,
anzi la catastrofe, è diventata inevitabile.
E a questo paradigma non sfugge certamente la città
contemporanea, che Virilio definisce “la più
grande catastrofe del ventesimo secolo”.
“All’iperconcentrazione delle megalopoli
si aggiunge non solo l’iperterrorismo di massa,
ma anche una delinquenza panica che riconduce la specie
umana alla danza di morte delle origini e la città
torna a essere una cittadella – in altre parole
– un bersaglio per tutti i terrori, domestici
o strategici”. Ed è proprio in queste
“città atrofizzate che si credono il
centro del mondo” che Virilio individua lo “spazio
critico” della cosiddetta mondializzazione economica,
dove la crescente velocità dei mezzi di comunicazione
ha vanificato la vecchia idea della sovranità
territoriale come fondamento dello stato di diritto:
“il mondo degli affari, come quello della guerra,
si ritrova allora in condizioni di assenza di gravità,
nell’attesa angosciante del grande incidente,
di questo crac globale che non mancherà di
prodursi un giorno o l’altro”. Nell’osservare
la continua accelerazione delle reti e dei mezzi di
comunicazione, Virilio arriva così a parlare
esplicitamente di un “crepuscolo dei luoghi”,
perché è soprattutto la crescente velocità
degli spostamenti che ha divorato i luoghi, le coordinate
territoriali e ogni altro riferimento di posizione:
“le distanze si sono annullate e gli intervalli
di spazio e tempo sono scomparsi nella progressiva
desertificazione e miniaturizzazione del mondo”.
Virilio spinge questa suggestione quasi sino al paradosso:
“Dopo essere riuscita a miniaturizzare gli oggetti,
le macchine, i motori, la tecnica ha infine raggiunto
i propri scopi miniaturizzando i tragitti, i confini
del mondo”.
Ecco allora il problema, il punto di crisi dell’epoca
globalizzata in cui viviamo: se ai tempi di Cesare,
“la più grande gloria dell’Impero
era di fare delle proprie frontiere un vasto deserto”
oggi, invece, “il deserto in questione non si
situa più in periferia – lungo il limes
- ma intra muros, ovvero nel centro delle metropoli”.
Le bombe dei kamikaze, allora, non uccidono più
soltanto alla periferia dell’impero, in Iraq,
Israele, Afghanistan, ma colpiscono anche nel centro
delle città occidentali, tra i grattacieli,
nelle stazioni della metropolitana e alle fermate
degli autobus. Il confine globale che segna la frattura
tra i popoli del mondo, che divide il pianeta tra
nord e sud, attraversa adesso il cuore delle città.
Virilio osserva infatti che ormai “le frontiere
dello Stato americano passano proprio all’interno
delle metropoli del ventunesimo secolo, con le loro
gangs, le loro milizie, i loro terroristi di cui nessuna
guerra classica potrà liberarci”. Virilio
porta ad esempio l’impiego che gli Stati Uniti
fanno della loro guardia nazionale: “specializzata
nella lotta contro le conseguenze delle catastrofi
naturali, l’unità sembra a proprio agio
nella periferia della capitale irachena, esattamente
come negli slums americani, in mezzo a civili abbandonati
al saccheggio e a violenze di tutti i generi”.
Aggiungiamo allora che, proprio in questi mesi, la
guardia nazionale si trova a proprio agio nella periferia
di New Orleans come nei villaggi iracheni controllati
da Al Zarkawi rivelando come, nell’immediatezza
di un mondo senza più distanze, lo stato di
emergenza si è ormai generalizzato. In realtà,
l’iperterrorismo di cui parla Virilio è
tale perché completamente deterritorializzato:
per distruggere non ha nemmeno bisogno della massa
d’urto di un esercito di divisioni blindate
e il suo sistema di armi, del resto, consiste nell’insieme
dei mezzi di comunicazione di massa rivolti contro
l’avversario.
L’INFOWAR descritta in “Città panico”
è una vera e propria guerra al reale, in cui
l’arma di comunicazione di massa è strategicamente
superiore all’arma di distruzione di massa.
Di colpo a prevalere è l’informazione
e la sua velocità di comunicazione istantanea
da cui nasce il movimento panico che sconvolge il
nostro senso dell’orientamento e, in altre parole,
la nostra stessa percezione del mondo. Paul Virilio
scrive in proposito: “Ormai, con la rivoluzione
della comunicazione audiovisiva, assistiamo (in diretta)
ai disturbi della percezione stroboscopia dell’informazione;
di qui la confusione non solo delle nostre immagini
oculari, ma soprattutto delle nostre immagini mentali”.
In proposito, Virilio cita le parole di George Bush
nell’aprile del 2003: “Per una combinazione
di strategie immaginative e di tecnologie avanzate
ridefiniamo la guerra sulle nostre basi”. Ma
se la definitiva disgregazione dei grandi blocchi
geopolitici ha comportato nei fatti la crisi dello
Stato-nazione, il ripiegamento tattico sulle metropoli
è stato altrettanto illusorio, confermato dalla
riapparizione delle città-stato cintate e militarizzate
come fortezze. Ne sono un esempio gli Stati Uniti
che, con il pretesto della paura e dell’insicurezza
sociale, vedono oggi decine di milioni di cittadini
reclusi nelle cosiddette gated comunities, sobborghi
residenziali blindati, protetti da cinte di telecamere
e guardiani armati. E sempre Virilio osserva come
ciò valga ugualmente anche per il continente
latinoamericano, dove le gang devastano la città
a San Paolo come a Bogotà o Rio de Janiero,
quando non lo fanno altrimenti gli squadroni della
morte, i gruppi paramilitari o di “forze armate”,
svelando il “totale caos del vecchio diritto
di cittadinanza” e confermando “l’emergere
di una cinta, di un campo trincerato, di uno stato
poliziesco dove le forze dell’ordine sono privatizzate
come lo sono state, una dopo l’altra, le imprese
pubbliche”. Sintomi questi della regressione
patologica della città, dove la cosmopolis,
la città aperta di ieri, ha ceduto il passo
alla claustropolis caratterizzata dai tratti della
chiusura e dell’esclusione. Il libro, già
dopo gli attentati di Londra della scorsa estate e
della catastrofe di New Orleans, appariva di notevole
ed evidente interesse. In realtà, il testo
propone ed approfondisce anche ulteriori aspetti che
ritornano di immediata attualità: soprattutto
riguardanti certe strategie comunicative ed emozionali
dell’attuale politica spettacolo (anzi dello
“spettacolo della politica”).
Non a caso, Virilio parla e definisce l’idea
di una nuova democrazia dell’emozione: “dopo
i danni della democrazia d’opinione –
che sostituirebbe la democrazia rappresentativa dei
partiti politici – e i deliri della politica
spettacolo, si immaginano facilmente quelli procurati
da questa democrazia di emozione pubblica che rischia
di dissolvere come l’acido, l’opinione
pubblica, a beneficio di un’emozione collettivistica
istantanea di cui abusano tanto i predicatori populisti,
quanto i commentatori sportivi o gli animatori di
rave party”. Come non pensare allora agli scenari
di “miseria, terrore e morte” evocati
da Berlusconi e dai suoi Berluscones dell’ultima
campagna elettorale. Una campagna giocata in gran
parte per suscitare paura e ansia. Perchè sempre
secondo il filosofo francese, dopo la standardizzazione
dell’opinione pubblica, l’omologazione
dei consumi e più in generale della cultura,
entriamo nell’era della “sincronizzazione
dell’emozione collettiva”, in cui “il
movimento panico diventa l’accelerazione della
realtà che distrugge il nostro senso dell’orientamento
– in altre parole la nostra visione del mondo”.
Francesco Scalone
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